Nuova presentazione questa mattina per il dossier ‘Lavoro indecente. I braccianti stranieri nella piana lametina’

Dopo quella già avvenuta a luglio nel Chiostro di San Domenico

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    Dopo quella già avvenuta a luglio nel Chiostro di San Domenico, nuova presentazione nel salone dell’episcopio di Lamezia Terme questa mattina per il dossier “Lavoro indecente. I braccianti stranieri nella piana lametina”, a cura di Francesco Carchedi, Marina Galati, Isabella Saraceni.
    Ne esaltano il lavoro a nome della diocesi il vescovo Cantafora, la guida della Progetto Sud (che in città gestisce i progetti Sprar) Don Giacomo Panizza, gli autori dello stesso report, condannando il fenomeno descritto e chiedendo strumenti diversi e più performanti.
    Già il 5 luglio Marina Galati stimava che in Calabria «circa 1.000 donne che ogni anno finiscono nel circuito della prostituzione per strada. Si valuta che le organizzazioni criminali da una donna vittima di tratta immessa nel giro della prostituzione possano trarre un profitto fino a 150.000 euro in un anno».
    Nel report si parla di «una forte presenza di “prostituzione al chiuso” che non si sostituisce al quella all’aperto, ma si mostra come un fenomeno “collaterale” prodotto di una strategia di diversificazione dell’offerta dei servizi sessuali. Per cui alla prostituzione “visibile” su strada si affianca quella “invisibile”, che si svolge al chiuso, prevalentemente in case o appartamenti privati».
    Specificando che non sia chiaro quanto il fenomeno nasca dalla volontà delle stesse donne coinvolte, si circoscrive l’area del monitoraggio su strada «principalmente sulla statale 18, dal Comune di Nocera Terinese fino a quello di Pizzo, con una concentrazione maggiore nei pressi del Bivio di Palazzo. Pertanto sono numerosi i comuni coinvolti nel fenomeno: Amantea, Nocera Terinese, Falerna, Gizzeria, Lamezia Terme, Curinga, Pizzo. Le donne impiegate nell’attività sono nella totalità maggiorenni e straniere provenienti dall’area dell’Africa Sub-Sahariana (Nigeria, Senegal) o dell’Europa dell’Est (Bulgaria)», aggiungendo che «ad ogni uscita, le donne incontrate dal 2015 al 2017 sono state numericamente variabili, da un minimo di 35 ad un massimo di 55».
    Anche a queste donne è rivolta la rete sanitaria del dono, «un sistema che coinvolge circa 20 professionisti del settore sanitario (radiologi, odontoiatri, ginecologhe, ortopedici, biologi, infettivologi, medici di base, cardiologi, otorinolaringoiatri, oculisti) che si prendono cura, su segnalazione dei casi vulnerabili da parte delle operatrici e degli operatori, delle donne coinvolte nel circuito dello sfruttamento e che necessitano di interventi specifici».
    Se le donne vengono sfruttate per lo più a fini sessuali, per gli uomini la strada è quella della raccolta di frutta e verdura nei campi. «I giovani che incontriamo sono uomini provenienti per lo più da Africa Subsahariana e dal Bangladesh. Lavorano prevalentemente nei campi di cipolla e guadagnano dai 25 ai 30 euro al giorno, per circa 8 ore di lavoro, ma spesso gli orari diventano strazianti superando le 12 ore consecutive», racconta Rosanna Liotti della Progetto Sud, «ai più fortunati saranno corrisposti dai 3 ai 4,50 euro per ogni ora di straordinario», precisando però come «non si tratta di persone irregolarmente soggiornanti che lavorano “in nero”, la maggior parte di essi è in regola con i documenti ed è addirittura in possesso di un contratto di lavoro», anche se «solo in apparenza, non essendo computate tutte le giornate di lavoro, più che altro per tutelare il datore di lavoro nel caso di controlli», né si può parlare di immigrati irregolari «avendo chiesto asilo in Italia ed essendo ospitati in centri d’accoglienza dai quali i braccianti partono autonomamente per andare a lavorare nei campi».
    I lavoratori che non hanno invece una dimora fissa si rivolgono a centri come le Querce di Mamre che da settembre 2015 a maggio 2017 ha effettuato «1300 interventi tra servizio doccia, servizio ristoro e interventi riguardanti i colloqui sanitari e di orientamento. La maggior parte delle persone incontrate nell’ambito del Progetto B.U.S son uomini di età dai 19 ai 27 anni, provenienti per lo più dal Kurdistan iracheno, Marocco, Somalia, Africa Subsahariana e Bangladesh, coinvolti prettamente nei lavori di agricoltura» spiega Serena Praticò della Caritas Diocesana.
    Oltre ad servizio di monitoraggio, il progetto B.U.S ha anche avuto storie positive da raccontare. E’ il caso dei tirocini formativi, illustrati da Cristina Lio della Progetto Sud, «che hanno coinvolto 6 giovani di diversa nazionalità (senegalese, ghanese, ivoriana, Guinea Bissau, nigeriana), e di età compresa tra i 20 ed i 35 anni. I tirocini sono iniziati a marzo e si sono conclusi a dicembre 2016, coinvolgendo 5 diverse aziende del territorio lametino (autocarrozzeria, panificio, tipografia, azienda agricola, supermercato) e una di Falerna (azienda di mangimi per animali), e per 2 tirocinanti è arrivata anche l’assunzione in azienda».
    Il focus in questa indagine si è concentrato solo sui lavoratori stranieri, le cui condizioni di lavoro in alcuni casi son però simili a quelle di cittadini italiani, riaccendendo così anche l’attuale dibattito sull’impatto che questi abbiano sull’economia e la demografia locale. Al 31 dicembre 2016 i dati Istat certificano infatti che sui 70.891 residenti son 5.133 gli stranieri (2748 maschi e 2385 femmine) nella città della piana, per lo più provenienti da Marocco (1549), Romania (1187) ed Ucraina (532).
    Gi.Ga.

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