«Ai fini di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non rileva che i consiglieri eletti siano di maggioranza o di minoranza»

Per il Consiglio di Stato bene l’opera amministrativa antimafia, ma bastano indagini in maggioranza o opposizione per confermare lo scioglimento

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    In vista del termine del 12 ottobre per presentare le liste per le ora confermate elezioni amministrative del 10 novembre, con ballottaggio fissato il 24 novembre, un richiamo da Roma alla politica arriva anche nella sentenza che ha confermato lo scioglimento del consiglio comunale lametino. Si specifica infatti che «ogni futura azione politica e amministrativa, che risulterà dall’esito delle prossime elezioni, dovrà recidere qualsiasi rapporto, qualsiasi compromesso con il potere mafioso, senza scendere a patti con esso per convenienza o connivenza o mero timore, se vorrà essere autenticamente rispettosa del principio democratico, che anima la Costituzione (art. 1, comma secondo) nelle forme e nei limiti da essa previsti, pena, altrimenti, la dissoluzione del consiglio comunale ai sensi dell’art. 143, comma 1, del T.U.E.L., quale necessaria extrema ratio a tutela dell’ordinamento costituzionale e dei suoi più basilari valori, la dignità e la libertà della persona, dai quali nemmeno una volontà popolare, inquinata dalla minaccia o dalla corruzione mafiosa, o l’accordo tra politica e mafia può decampare, poiché questa dignità e questa libertà, valori irrinunciabili per chiunque, costituiscono il fondamento, ma anche il limite di questa volontà in un ordinamento non solo formalmente, ma autenticamente democratico».

    Le contestazioni di ex sindaco ed assessori per il Consiglio di Stato «appaiano inverosimili e non degne di fede sul piano di una logica causale di stampo probabilistico, in una situazione di generalizzato disordine amministrativo e di irregolarità nella gestione degli appalti pubblici e, soprattutto, in un contesto che ha visto molti consiglieri comunali legati a soggetti ed interessi riconducibili a contesti mafiosi», anche se il 21 ottobre in Corte d’Appello solo in 3 saranno chiamati ad essere giudicati (Paolo Mascaro, Pasqualino Ruberto e Giuseppe Paladino, quest’ultimi coinvolti in Crisalide con assoluzione in primo grado per l’ex candidato a sindaco ed il padre dell’ex consigliere comunale), reputando che «ai fini preventivi, che qui soli rilevano, può bastare infatti anche soltanto un atteggiamento di debolezza, omissione di vigilanza e controllo, incapacità di gestione della macchina amministrativa da parte degli organi politici che sia stato idoneo a beneficiare soggetti riconducibili ad ambienti controindicati. Gli appellati, al pari della sentenza impugnata, trascurano peraltro e comunque che la compromissione dell’ente con logiche e influenze mafiose può essere tanto radicale da inficiare, in radice, la formazione stessa della volontà dell’ente, sicché la prevalenza e la pregnanza degli elementi soggettivi può essere tale da comportare ex se, secondo la ridetta logica probabilistica, l’alterazione di una libera volontà democratica all’interno delle istituzioni locali e la conseguente adozione della misura dissolutoria».

    Oltre a Crisalide, infatti, la sentenza cita fra gli omissis anche le altre operazioni che hanno coinvolto, direttamente o tramite congiunti, altri consiglieri di maggioranza ed opposizione, tornando anche a condannare la professionale legale di un ex assessore, sostenendo che «l’insieme di questi elementi, la cui pregnanza e univocità appare difficilmente contestabile, dimostra l’esistenza di una fittissima rete di intrecci, legami, cointeressenze tra i vertici politici del Comune, che essi appartengano alla maggioranza o alla minoranza, e una irrimediabile compromissione del governo locale con soggetti e logiche di stampo criminale mafioso, considerata persino la contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa ad alcuni degli amministratori locali».

    Su un punto la sentenza poi entra nel dibattito politico: «ai fini di cui all’art. 143 del T.U.E.L., non rileva che i consiglieri eletti siano di maggioranza o di minoranza, ma che essi siano stati eletti con l’appoggio determinante della mafia e siano espressione non già del libero, inconcusso, esercizio del voto popolare, ma di accordi preelettorali e di intese tra esponenti politici locali con questa, che ne ha favorito l’elezione con l’apporto dell’intimidazione e dell’omertà mafiosa, o anche solo di pressioni finalizzate all’appoggio di esponenti politici nel consiglio comunale senza che vi sia stata alcuna spontanea, preventiva, dissociazione di questi da tale appoggio se non ad indagini già avviate». Si aggiunge, citando la relazione del Prefetto, che «le dimissioni “a tappeto” di importanti esponenti politici locali dalle loro rispettive cariche, con conseguenti surroghe, che sono seguite – e, si direbbe, conseguite – all’insediamento della commissione d’accesso non modificano, ma anzi aggravano il quadro di insieme, perché «costituiscono un ulteriore indizio del sistema utilizzato per nascondere l’infiltrazione ed il condizionamento della criminalità organizzata dietro un apparente perbenismo».

    Quasi a dire che ad ogni indagine, ancora prima della sentenza, sarebbe lecito aspettarsi uno scioglimento del consiglio comunale. Non bastano infatti neanche gli atti amministrativi rimarcando come «la giunta comunale, prima del provvedimento dissolutorio, avesse posto in essere anche una significativa attività volta al recupero dei beni confiscati alla criminalità organizzata, con successiva assegnazione degli stessi, o alla costituzione di parte civile del Comune in processi di criminalità organizzata, oltre che una significativa azione di risanamento in molti settori della vita pubblica, perché simili azioni, quando pure possano considerarsi sincera, lodevole e non meramente perbenistica, appunto, opera di contrasto all’egemonia della ‘ndrangheta e di riaffermazione della legalità sul territorio -OMISSIS-, come ha ritenuto il Tribunale di -OMISSIS- nella sentenza -OMISSIS- del 2018 nel rigettare la richiesta di incandidabilità di -OMISSIS-, non hanno certo potuto scongiurare la irrimediabile compromissione della vita politica e amministrativa dell’ente determinata dalla capillare infiltrazione delle cosche locali nei più alti livelli della vita cittadina, come pure quel Tribunale non ha mancato di rilevare nel ritenere integrato il requisito del condizionamento richiesto dall’art. 143 del T.U.E.L».

    Alla fine sindaco ed assessori uscenti dovranno rifondere in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri le spese del doppio grado del giudizio, che liquida nel complessivo importo di 10.000 euro (4.000 per il primo grado e 6.000 per il secondo grado di giudizio), oltre gli accessori come per legge.
    Gi.Ga.

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